Il documentario "Gay... et aprés?" di Jean-Baptiste Erreca (Francia 2007) è tecnicamente molto affascinante, con una inquietante predilezione per le scene notturne, capaci di fondersi: dalle luci al neon di una New York festaiola, al fascio illuminato roteante sopra una Parigi stanca, oltre che i lampioni di una Pechino troppo impegnata a parificarsi con l'Occidente ma incapace di risolvere i conflitti con i propri fantasmi. Ma non solo queste città: anche Madrid, Berlino e L'Havana hanno qualcosa da offrire e da far scoprire. Forse troppo: una nudità che spinge verso la ricerca di un pudore, o di una risoluzione attraverso la concettualizzazione della propria identità.
Perchè, alla fine, quello che emerge non è altro che la contraddizione esistente all'interno del fantomatico (e reale?) movimento gay, lesbico transgender. Tante voci, tante opinioni, una sola realtà: l'identità nominata diventa l'unico mezzo per evitare di perdersi nella miriade di vite ed esistenze che l'epoca postmoderna ha prodotto. Nella paura di perdersi, e nell'angoscia della solitudine, l'unica possibilità risulta quindi l'immedesimazione totale in quel modello che, nato come rivoluzione alla costrizione sociale, diventa anch'esso norma. Risulta quindi emblematica la posizione di Emmanuel Blanc: fondatore di Gaylib in Francia, strenuo sostenitore di Sarkozy e, nello stesso tempo, incapace di rendersi conto che il suo appoggio viene totalmente ignorato. O forse non lo vuole ammettere, specie se la sua vita non diventa altro che quella posizione.
Ma l'accento globale del documentario non viene posto, o interpretato, solo su un piano esistenziale, ma, soprattutto, su un piano economico. Il mondo cambia, cambia in fretta: il mercato e le sue regole si impongono come centro d'attrazione per le generazioni e, nel contempo, nelle identità. Il postgay non può che intrecciarsi nel postcapitalismo: il consumismo dei beni come consumismo delle rivendicazioni. La discriminazione come strumento tecnocratico per sfuggire, ancora una volta, alla paura della solitudine, provocata anch'essa dal new marketing. La discriminazione come oggetto per sentirsi se stessi. Una svendita: e nelle parole di Amanda Lepore, storica trans vip-festaiola nella scena newyorkese (nella foto in alto con il rapper Cazwell), si ritrova il senso stesso di un pensiero ora troppo perseguito. Ossia la generazione di una lobby economica, non solo sociale. I soldi che comprano tutto: la vita, i corpi, la libertà. Venghino signori venghino.
Stessi pensieri, città diversa: Madrid. Epoca zapateriana, la conclamata era della libertà. Una coppia. Trans. Entrambi. Lui scappato dal suo paese. Lei non si capisce nulla di cosa vuole dalla sua vita. Prosegue a vivere cucinando per il suo boy. Lavoricchia qua e là. Non si sa se è felice oppure no. Sa solo che è donna. Con i documenti a posto. Evviva la libertà... se questo è il massimo che il transgender ci offre. A quando il post transgender?
Per questi motivi, gli emblemi del documentario si ergono su due personaggi. Il primo, Cui Zi'en, insegnante di cinema a Pechino esonerato dalla sua attività, fa emergere la sua solitudine senza colpe o senza inganni. Nudo: attorno il mondo. L'altro, Philip Tanzer, il leather man di Berlino (vedi foto a lato), corazzato dai suoi tatuaggi, uno scudo contro la rivendicazione e un processo di postnormalizzazione. Una solitudine suadente, affascinante e tremendamente sexy. Un giorno, dice, ci sarà sulla scena un nuovo movimento gay, ma anche quello non mi piacerà.
Chissà a chi piacerà?
Milesmood
Trans significa attraverso, quindi movimento, invece oggi l'dentità delle trans è una cosa ferma e statica. W il posttrans!
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