Green Zone di Paul Greengrass

"E' sempre importante il motivo per cui si dichiara una guerra", dice alla fine del film l'ufficiale Roy Miller (Matt Damon), a capo di una delle molte squadre impegnate nella ricerca delle famigerate WMD (Weapons of Mass Destruction) di Saddam Hussein durante la guerra in Iraq. E' il 2003, la guerra è iniziata da un mese e di armi nucleari, chimiche o batteriologiche ancora non si è trovata traccia, nonostante le notizie dell'Intelligence (militare, non CIA). Per questo motivo, l'ufficiale inizia ad indagare meglio dietro a queste incongruenze, complice sia l'avvistamento del Generale Al Rawi sia dell'interessamento della CIA, pronta ad un accordo con lo stesso Al Rawi per impedire lo scioglimento dell'esercito iracheno, unico collante di un paese sull'orlo di una guerra civile.

La storia è nota: le WMD in Iraq non ci sono mai state. La motivazione alla guerra è venuta meno assieme alla credibilità dell'amministrazione Bush a livello mondiale. Un errore strategico le cui conseguenze sono ancora sotto gli occhi di tutti. L'Iraq è un paese distrutto, con morti e feriti senza distinzione di etnie. Manca un qualunque piano per la ricostruzione del paese assieme a una qualche possibilità di ripiegamento delle forze armate, cosa che alimenta tensioni terroristiche sia all'interno che all'esterno dei confini. L'economia mondiale ha avuto uno shock e una ridistribuzione del suo equilibrio geografico e, infine, non si sa per quanto ancora durerà tutto questo.

Non una bella prospettiva, specie se la si inserisce nel più ampio contesto mondiale già riempito di crisi e instabilità continue. Per questo motivo, il film di Greengrass affronta l'argomento nel modo più semplice possibile: attraverso una spy story d'azione che, camera alla mano come si trattasse di un documentario, porta direttamente sul campo chi assiste alla scena, dove la gente muore senza un perché, senza poter affermare quello che è possibile o no fare, con il rischio di essere solo pronti a possibili annunci da mettere in prime time al notiziario. La stessa guerra ha cambiato forma, diventando più sottile, e non sono più permessi errori. In linea teorica, diventa più semplice sapere la verità e, proprio per questo, il suo nascondiglio si fa sempre più sofisticato.

Mentire al mondo, specie su un argomento estremamente importante come lo scoppio di una guerra, vorrebbe dire perdere legittimità su tutto. Invece, anche la storia è andata diversamente, confermando per altri 4 anni quella stessa amministrazione, lasciando che le conquiste, a questo punto presunte, del passato diventassero di cartapesta. Un vuoto formalismo, che sarebbe però assurdo circoscrivere ai soli USA. Nessuno è esente dall'ammettere che, dopotutto, si continui a sbagliare, con in più addosso il peso di questo manierismo che rende solo più sofisticati gli errori.

Indagare allora è l'unica possibilità, che ci si chiami Miller, Greengrass o Chandrasekaran (giornalista autore del libro Imperial Life in the Emerald City da cui è stato tratto il film): per chi la vuole la soluzione è li fuori, anche se significa combattere il formalismo. Semplicemente per ripristinare l'idea dietro quella maschera che prepotentemente si arroga il titolo di democrazia, la quale continua ad avere sostenitori perché appagati dal contentino quotidiano.

Resta poco altro da fare. Solo non voltarsi indietro a riguardare le proprie scelte. Appartengono al passato: occorre guardarsi allo specchio.

Milesmood

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