James Ellroy, il noir e il campo di cipolle


Tutto quello che mi resta è la volontà di ricordare. Non c'è più il tempo: solo sogni febbrili. Mi sveglio con un senso d'ansia; ho paura di dimenticare. Nelle fotografie la donna è sempre giovane.
(James Ellroy - White Jazz)

Mi ricordo la prima volta che ho tirato un pugno in faccia ad un ragazzo. Avrò avuto dodici anni. L'altro era un coetaneo. Il motivo forse non c'è mai stato, ma quello che accadde dopo è ancora in memoria. Così come il suo sangue sulle nocche delle mani. Il suo naso ne perdeva di continuo. L'unica fortuna fu che non si ruppe. Andò in un bagno, si ripulì con dell'acqua fredda poi uscì. In quel momento non mi sentii strano, né più forte. Non c'era spazio nemmeno per dei sensi di colpa. Quelli vennero dopo, accompagnati da altre situazioni simili.
Ne diedi altri, ne ricevetti altri. Forse con più interessi di quanti me ne aspettassi. Si va avanti, ci si rende protagonisti di altre situazioni di violenza. Eseguita o subita, non importa in quale ordine. Avvicinandosi dentro di sé, nel perdurare del sangue che, senza intoppi, può continuare a fare quello che più gli aggrada.
Spesso si parla di violenza come qualcosa che esiste di per sé. Qualcosa di fisico principalmente, spesso dimenticandosi che quella non è mai un fine, ma solo un mezzo. In qualunque forma che essa può presentarsi. Un pugno come una parola. Ne diventa un tramite per qualcosa di altro. La violenza mediatrice.
Fare i conti con questi aspetti porta poi a crescere. Più in fretta o più in sordina. Senza scampo per cani o porci. Diventa parte integrante della vita senza avere un benchè minimo senso. Passato o non passato, senza lotte o stracci di pace. Si fanno i conti, si superano certe questioni insolute che la violenza porta con sé. Quello che rimane è sempre qualche cicatrice, solitaria, da condividere con parsimonia e cautela. E' testimone preziosa del tempo.
Ma la cosa più tremenda della violenza è la solitudine che l'accompagna, specie quando viene subita. Si annida dentro, fagocitando ogni briciola nascosta di speranza o articoli correlati. E' una solitudine strana, pressante e necessaria. Il suo animo è noir, come il genere letterario. Per questo, forse, più che un genere il noir è uno stile di vita. Cambia inoltre la prospettiva, se è imposto o scelto autonomamente. Il noir è qualcosa che brucia e che fa bruciare chi lo tiene stretto. Un percorso nei sotterranei. Nessun piagnisteo o vittimismo. E nemmeno rassegnazione. Solo vedere il mondo da un angolo insolito. Quello per cui non dici che le donne sono tutte puttane se ti tradiscono una volta, ma resti lì a domandarti perchè se le guardi negli occhi non puoi fare a meno di impazzire per loro.
James Ellroy lo spiega in un articolo tutto questo. Attraverso una passione per i libri che oltrepassa il confine della legalità. E' solitudine sì la sua, ma non solo. Non riesce a trasmetterla tutta. Una parte la conserva per sé come uno scrigno. Ne condivide una fetta. Domanda se c'è un libro che possa far cambiare la vita. Il suo è un tentativo di una ricera di una risposta. Una strada che sa anche di redenzione. E' un lastricato, attraverso un campo di cipolle, dove le lacrime evocate e nascoste sono pubbliche. Ma il resto no, è celato. Quello rimane solo un segreto noir.

http://www.corriere.it/cultura/09_marzo_22/ellroy_9bba59ca-16c1-11de-a7e8-00144f486ba6.shtml


Nessun commento:

Posta un commento

Il grande colibrì