Natale

Sta già arrivando Natale. Me ne accorgo guardando dei tizi addobbare con poche luminarie un angolo al buio nel centro di Milano. Le guardo scendere dal muro, accostate e silenziose, accese e senza fronzoli. Probabilmente da bambino sarei impazzito di gioia. Le luci volevano dire regali, cioccolate calde con biscotti alla crema da prendere durante lunghe passeggiate sotto la neve, salutando tutti i Babbi Natale ad ogni angolo delle strade e sbarrando gli occhi davanti alle vetrine dei negozi di giocattoli. Sicuramente, fossi stato bambino, avrei tirato la manica della giacca di mia madre e, indicando le luci, le avrei chiesto quando avremmo messo le palline sull’albero e se Babbo Natale mi avrebbe portato il castello dei Lego. Ma ora quelle filiformi luci gialle, ingrigite dalla polvere del magazzino in cui erano sprofondate, mi portano solo una pena enorme. Identiche a un anno fa, due anni fa, tre anni fa, quattro anni fa, trascinano la via indietro nel tempo fermandolo senza spirito, identica a se stessa e incapace di spogliarsi dal grigio ammuffito.

Sta già arrivando Natale. Penso alla Moratti che taglierà i fondi per le luminarie e immagino la città di neve senza pastelli. Trafugo nella sua lista dei desideri da chiedere a Babbo Natale, la lettera mai spedita, accartocciata sotto le pratiche. Come un bambino la rubo per disegnarci sopra la casa innevata, senza rendermi conto dell’arrivo del funzionario che, sgridandomi, me la toglie da sotto il naso. “Cosa combini?”, mi sgrida. E scappo spaventato. La città rimane vestita di stress, tra il dolore lento e untuoso che cola tra vetrine e lampioni gracchianti.

Sta arrivando Natale. È tempo di bilanci e buoni propositi per l’anno venturo. Sento la pelle di chi ho incontrato sul mio corpo e vedo gli occhi che ho incrociato. Come un bambino chiedo sempre perché. Insoddisfatto dalle risposte batto i piedi e incrocio le braccia. Non servono risposte se non si sa come dirle come non servono domande se con quelle non si sa crescere. Ripenso a discussioni, dialoghi teatrali con persone troppo adulte con cui poter giocare. Da bambino mi arrabbio perché non è troppo tardi per giocare, senza che la via timbri i suoi cartellini sui nostri corpi. Altri non cercano risposte ma solide certezze, bambini capricciosi che si arrampicano sul normale albero da vialone alberato. Cerco il mio albero su cui giocare, dove posso essere tutto perché non sono niente. Così divento l’uomo di luce che salva il pianeta con i suoi poteri; divento l’eremita bofonchiante che inventa storie per i bambini sperduti nel deserto; divento la donna alata i cui voli si alimentano dei desideri e sogni dei mediocri; divento il principe del bosco incantato oppresso dall’esercito degli orchi; divento la donna più bella perché impazzisco dentro il suo femminile; divento il nulla perché solo nell’estrema diversità posso respirare. Ma ascolto parole che non conosco, di una lingua che non mi appartiene, creata per esprimere solidità, parole che si intersecano nelle vite plasmandole come zoo integrandole alla perfezione nella città dalle identità perfette. Viaggio a ritmo della fluidità e piango perché attorno a me non c’è più acqua.

Sta arrivando Natale. Tutti continuano a parlare. C’è grande agitazione intorno all’amore e al sesso. Addento la mela nel parco penetrando il freddo e ascoltando il vociare degli studenti mentre all’angolo si montano le luci. Le prime gelate mi gracchiano le ossa, quei discorsi le orecchie. Le solite cose, i soliti argomenti. Una ripetizione ininterrotta e ininterrompibile. Processi, auto, scandali. Mordo la mela congelata, ricordandomi dell’altra sera. Se ne stava in piedi in intimo. La luce blu televisorea le illuminava le forme, i capelli le coprivano il volto e le spalle. Come una musa stava in piedi, di profilo, ad ascoltare la musica che le avevo portato, la tromba di Miles Davis, ricordandosi del passato, inarcando la schiena e spostando il collo all’indietro, così che si lasciasse guardare meglio. Capelli lisci, neri, pelle profumata della sua recente doccia. Si allunga su di me, slacciandosi il reggiseno e mostrandomi i suoi seni duri, sussurrandomi te quiero. Le accarezzo il collo baciandola e tranquillizzandola. Come un bambino la stringo forte e lei, come una bambina, mi mordicchia il petto, raccontandomi poi di lei, quando si divertiva a ballare con la gonna in casa e sua madre che piangeva. Come un bambino la ascolto come se fosse la maestra di scuola. Fuori il treno fischia sulle rotaie. Ha freddo e sento le sue gambe fra le mie. Osservo i suoi occhi che scrutano dentro me. Vorrebbe togliersi le mutande e stare nuda ma si vergogna e si rattrista. Così non c’è da preoccuparsi le dico e, come un bambino, le mordo i capezzoli circondati da pelle d’oca.

Sta arrivando Natale e i tecnici hanno finito di montare le luci. Richiudono la scala, impacchettano le loro cose e si allontanano dentro il negozio. Fuori rimangono le filiformi luci gialle ingrigite dalla polvere. Spente e stanche. Probabilmente, fossi stato bambino avrei chiesto a mia madre perché non si accendevano e lei avrebbe risposto paziente che non c’era corrente, ed io le avrei chiesto cosa fosse la corrente e lei sarebbe rimasta in silenzio perché non sapeva come spiegarmelo. Quegli uomini si allontanano e li immagino come Babbi Natale. Ora all’angolo li aspetta la slitta, le renne voleranno via e andranno tutti a giocare con i pinguini a palle di neve in Groenlandia. Credo possa esistere un posto così, dove gli elfi preparano i giocattoli e gli orsi polari, vestiti come matrone tedesche, versano con gli scoiattoli cioccolate calde. E, come un bambino, le scrivo semplicemente te quiero.

Little Prince(ss)

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2 commenti:

  1. bel post..mi ricorda un pò gli incipit dei "soliti temini in classe" che iniziano proprio con:"Sta arrivando Natale: emozioni, sensazioni, propositi e bilanci".
    Però c'è molto di più.

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Il grande colibrì