La morte non è qualcosa per tutti: è riservata a pochi eletti perché tanto io morirò nel sonno, tra 80 anni, in tranquillità, senza sofferenze e patemi: cederò solo quando il mio povero cuore non avrà più l’energia sufficiente per battere. Morirò da vecchio, per cui ho tutta la vita davanti, tempo per commettere errori, ripararli e continuare nella mia esistenza, bella o brutta che sia. Anzi, meglio di merda che fa più cool, in perfetto maudit style.
Con queste premesse diventa difficile parlarne, specialmente di una delle varie barche traghettatrici verso questo stato, la malattia, ancora di più se questa malattia prende il nome di Aids, l’acronimo più conosciuto assieme a quello dell’Onu. Il mito della vita perfetta, terminabile solo con un leggero dolorino al petto che ci fa addormentare beatamente, si squaglia di fronte a questa sindrome virale, come si scioglierebbe di fronte a qualsiasi altra malattia o infezione: epatite C, tumore, arteriosclerosi, diabete, trombosi, ischemia, colite, mielofibrosi…
La malattia, in questo modo, diventa un limite al sogno, un ostacolo alla vita: non si può più vivere, dimenticandosi però che mentre ci si immagina la bara si sta comunque vivendo, togliendo tempo a questa attività e buttandolo dietro a battiture sul petto e imprecazioni contro la crudeltà del mondo. La vita è tuttavia morte o, come direbbe Kierkegaard, è una malattia mortale, ma non è certo lei che può dirci come usarla. Spetta solo a noi decidere se vivere pensando a morire o viversi sentendosi vivi nonostante tutti i dolori.
Per l’Hiv/Aids il discorso diventa più complesso o, forse, lo si è reso artificialmente più complesso, trasformando una infezione/malattia in un cimitero ambulante senza speranza, senza considerare che per poter ambulare occorre essere vivi. Per questa ragione, presentiamo una inchiesta sul tema dell’Hiv/Aids e sul concetto di malattia e di vita.
Non si vorrà parlare specificamente di prevenzione: in generale si parla poco di questa infezione e quel poco è concentrato in quello, trascurando tutto il resto, cioè la convivenza con il virus e cosa questo comporta, senza per questo però pensare che la prevenzione sia inutile. Anzi, forse solo con una comprensione umana e concreta del problema si può migliorare una univoca modalità di conduzione di campagne preventive. Essere malati non vuol dire essere morti e, citando Napoleone: “Mi chiamino come vogliono, non m’impediranno di continuare a essere quel che sono”.
Milesmood
Le interviste dell'inchiesta:
* Roberto Recchioni e il totalitarismo di Mater Morbi
* Andrea Savarino e la ricerca per eradicare l'Hiv
* Niccky e l'Hiv come stimolo a vivere col sorriso
* Adriatico, Corbelli e il sesso confuso nell'era dell'Aids
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bell'articolo che tocca un tema importante. Senza inutili fronzoli come al solito.
RispondiEliminaBravi:)