Forse, anzi, più passa il tempo e più ti entra dentro, scavando così tanto dentro la consapevolezza che quasi si raggiunge l’epifania. In tal caso, è scritto nelle regole dell’arte che l’opera capace di provocare questo sia da definirsi un Classico, fedele riproduzione del periodo storico che intende rappresentare, sguardo al possibile futuro e adatto a conservare nel tempo l’immagine del presente.
La trama segue l’inchiesta narrata nel libro The Accidental Billionaires di Ben Mezrich, e racconta di come nel 2004 Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg), studente di informatica ad Harvard, piantato in asso dalla sua fidanzata attiva ubriaco un sito web, Facemash, in cui gli studenti sono chiamati a votare quella che secondo loro è la ragazza più figa del Campus. La popolarità del sito cresce esponenzialmente in sole quattro ore, cosa che attira l’attenzione sia del Consiglio dell’Università sia dei fratelli Winklevoss, alla ricerca di un programmatore che renda concreta l’idea di un social network accessibile solo agli studenti di Harvard.
Zuckerberg accetta l‘incarico dei fratelli, ma il suo contributo lo porterà ad occuparsi di altro, in collaborazione con il suo amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield), ossia un progetto alternativo, quello che sarà per l’appunto il fenomeno mondiale Facebook, in cui un ruolo subdolamente centrale sarà occupato da Sean Parker (Justin Timberlake), paranoico fondatore di Napster. Il seguito sarà solo la discesa verso le due cause giudiziarie contro Zuckerberg, una portata avanti dai Winklevoss e una da Saverin stesso.
Probabilmente, è emblematico il fatto che uno dei personaggi più importanti della vicenda, Facebook, compaia solo per pochi secondi, giusto il tempo di indicare quello che è il suo potere più grande e quello che, allargando più il campo a 360° comprendendo ogni aspetto della vita di rete, ci rende così indissolubilmente la Gente del 2000. Così verrà ricordata la popolazione di questo periodo, più di qualunque crisi economica o politica. Il film presenta quindi il mondo della rete come un personaggio e una realtà perfettamente integrata, se non spesso sostituibile, al mondo dei sensi.
Una realtà in cui l’attesa diventa evanescente perché sostituita dal real time, dalla istantaneità, dal pensiero che ormai, a detta di Parker, sarà possibile vivere solo con Internet. Si potrebbe ulteriormente scindere il tema della simultaneità e del tempo compresso della realtà, in cui non è dato l’aspettare ma ogni cosa va condivisa immediatamente, in cui la replica deve essere fulminea pena il disinteresse e la ricerca della motivazione del rifiuto, e vedere i dialoghi iper serrati del film in quest’ottica, in cui il web non c’entra nulla. Perché è questo ciò che stiamo diventando.
Certamente è solo uno dei tanti aspetti, ed è proprio la continua mutazione nel tempo di qualunque interpretazione di questa interpretazione della realtà che rende il film un classico. Ognuno coglie ciò che in quel momento riesce a vedere, sfaccettandolo ulteriormente in seguito. Stimolando di continuo quella facoltà chiamata critica, il film non può prestarsi ad una visione unica o non può nemmeno essere ridotto a pochi temi, così come diventa importante entrare all'interno del reticolo dell'amicizia dei personaggi, guardando in modo dinamico quello che si fanno, creando empatia con quello che noi faremmo in quella situazione, e solo successivamente con un dato personaggio con cui ci si identifica.
E’ un film globale, che richiama praticamente ogni aspetto vero delle nostre relazioni e realtà quotidiane. Imprigionarle sarebbe pari ad ucciderle. Meglio liberarle e farle scattare, anche a costo di rimanere con le nostre paure ed angoscie. Perché questo è l’unico modo per superarle.
Milesmood
Ps: le polemiche personali a volte servono solo a chi le provoca, eppure è impareggiabile il senso di liberazione che provocano nel momento in cui le si esterna. Uscendo dal cinema mi sono domandato perché c’è gente capace di portare avanti le proprie idee fino in fondo e intere culture, come quella italiana, basata principalmente sull’attribuzione dei fallimenti a terzi senza che ci sia un briciolo di responsabilità individuale, votata questa perlopiù al continuo lamentio e ai borbottii che per fare le cose nel mondo bisogna pretendere che qualcuno ci pulisca il culo di continuo e che la strada sia perfettamente liscia e levigata perché se no non è giusto. Credere che si possa cambiare il mondo con un’idea può essere folle e utopico se queste rimangono solo idee. L’azione è necessaria per qualunque cosa. Per questo, uscendo dal cinema, mi stava venendo da piangere in modo sincero ascoltando i soliti borbottii e lamentii di quelli in sala che affermavano con foga che se Zuckerberg fosse nato in Italia Facebook non sarebbe mai esistito. Chissà se è vero. Certo è vero che non occorre Facebook per cambiare il mondo. Ne pretendere che ci possa sempre essere un povero coglione che ci pulisca il culo dopo ogni cagata. Bisognerà prima o poi imparare ad usare le proprie manine iperdelicate.
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