Invictus di Clint Eastwood

Out of the night that covers me,
Black as the Pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds, and shall find, me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll.
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

William Ernest Henley


Le cose non riescono mai ad arrivare dall'alto come per magia. Occorre impegno, sacrificio, capacità di posporre il bisogno immediato per concentrarsi sull'obiettivo finale, anche se questo vuol dire incertezza e rischio. Spesso occorre anche puntare sulle cose più inaspettate per raggiungere uno scopo, specie se quello è qualcosa di grande.

Nel Sudafrica delle prime elezioni a suffragio universale, tenute nel 1994, vinte da Nelson Mandela (interpretato nel film da Morgan Freeman) la divisione post apartheid tra le famiglie di tribù e gli afrikaner era sull'orlo di una guerra civile. Per questo motivo, l'obiettivo principale per Mandela non era tanto ridare l'equilibrio politico ed economico del paese, scopo che tutti i suoi consiglieri gli caldeggiavano di perseguire, quanto quello di avviarsi sulla pacificazione interna, oltre il desiderio di vendetta delle tribù a lungo sottomesse e ora desiderose di rivalsa, così come oltre la paura dei boeri di perdere tutto quello che avevano e, per questo, pronti a difenderlo con tutte le loro forze. Simbolo di questo clima di tensione era la nazionale di rugby, gli Springbok, eterna squadra perdente amata dagli afrikaner e osteggiata dal resto della popolazione vista come bandiera di tutto ciò che rimaneva del regime di apartheid. Mandela si oppose alla volontà generale di abolire questa squadra e i simboli ad essa collegata. Anzi, andò oltre chiedendo al capitano della nazionale Francois Pienaar (Matt Damon) di vincere il Campionato del Mondo di rugby che si sarebbe tenuto l'anno successivo proprio in Sudafrica. Le motivazioni sono semplici: togliere il punto di riferimento di coloro che, nonostante tutto, avevano ancora in mano le redini del potere economico del paese sarebbe stata solo una vendetta meschina e immediata che avrebbe portato solo delle conseguenze dannose. Inoltre, aldilà di tutto, non c'è niente di meglio che condividere uno stesso destino per rafforzare uno spirito di fratellanza, e lo sport, checché se ne dica e si voglia fare gli intellettuali del mondo delle idee, è forse una delle cose che meglio assolve a questo compito. Il finale è già scritto, e il cammino che porta alla finale con la squadra più forte del mondo, gli All-Blacks neozelandesi, è costellata dal riavvicinamento del paese, poco tempo prima pronto a mordersi e a scannarsi a vicenda.

Il film, sebbene contenga in sé tutti gli elementi che lo farebbero supporre, non è certamente buonista. L’odio tra fazioni, l’elezione di un leader carismatico, una squadra senza valore che vince un campionato del mondo, il possibile inizio di una riappacificazione: per quanto possa sembrare scritto per essere una bella favola è una storia vera e, come tale, tanto vale capire i meccanismi reali che l’hanno resa possibile. Senza dubbio, lo sport nella sua essenza più vera, vale a dire la fatica, il sacrificio, dare il massimo, la fiducia nei compagni, la voglia di vincere non per ridere degli altri ma per dimostrare a se stessi e al gruppo di avercela fatta, il rispetto per l’avversario, può essere uno strumento per la politica.

Per Mandela lo diventa, per questo considerare la pellicola come un film sportivo è riduttivo: è un film politico. Lo sport è qualcosa di umano e viscerale, perché coinvolge il corpo e tutte le sue funzioni rendendo lui stesso il veicolo per trasmettere un messaggio: dopotutto, la fatica è universale molto più di un pensiero. Per questo è più aggregante di qualsiasi formalismo di maniera: tutto il resto passa dalla mente, impoverendo lo stimolo di pancia che, solo se ti lasci andare veramente, ti spinge senza capire perché ad abbracciare chiunque ci sia accanto se la squadra per cui tifate segna dei punti. Se appare stupido o volgare è forse solo perché non ci si è mai divertiti nel farlo o non si ha mai giocato una partita solo per divertirsi.

Come il sesso è qualcosa che unisce dei corpi; come il sesso è qualcosa che dovrebbe essere divertimento reciproco senza le gabbie della mente; come il sesso può essere politico; come il sesso esistono anche le derive di chi non ha capito niente né di uno né dell’altro, che siano stupri o cori razzisti. Ma, a differenza del sesso, lo sport non ha ancora ben capito la sua capacità e potenzialità umana di andare oltre qualunque limite perché non esistono limiti. È scritto nel suo DNA ma esistono ancora troppi preconcetti e infantilismi intellettuali dietro a quello che è semplicemente un gioco in cui occorre mettersi in gioco col proprio corpo. Ma quando accade, come nel film, la potenza che ne deriva va oltre ogni immaginazione. L’unica maniera per farlo è capire che la prima regola del rugby non è picchiare l’avversario ma passare la palla ai compagni solo orizzontalmente e all’indietro. Solo così si diventa indomiti.

Milesmood

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