Adriatico, Corbelli e il sesso confuso nell'era dell'Aids - La malattia e i suoi nemici (4° parte)

L'introduzione all'inchiesta:
* Dialoghi Hiv-correlati tra la vita e la vita

Giovedì 18 febbraio a Roma verrà presentato alla stampa "+ o - Il sesso confuso" di Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli, documentario che racconta il mondo che ci circonda nell'era dell'Aids. Il film, che sarà proiettato per la prima volta per il pubblico venerdì 26 febbraio in occasione del festival "Visioni Italiane" di Bologna, è una polifonia di testimonianze per raccontare, al di là di dannose semplificazioni e moralistici "dico non dico", che cos'è l'Aids e come ha cambiato il mondo. I registi mi hanno contattato per intervistarmi nel film. E ora tocca a me il piacere di intervistare loro...

* * *

Come nasce, da quali esigenze nasce il vostro documentario?

Siamo nati entrambi nel 1966. Questo significa che abbiamo vissuto la scoperta del sesso, da adolescenti, esattamente negli anni in cui scoppiava l'epidemia di Hiv/Aids. E' stato quindi un fenomeno che ha profondamente segnato la nostra vita. Ma non solo quella della nostra generazione. Anche chi è nato in anni più recenti è stato condizionato da questo virus negli aspetti più intimi della propria vita e, alla fine, tutta la società ha subito dei mutamenti che in qualche modo sembrano riecheggiare le paure suscitate dall'epidemia di Hiv.

Ci piace citare un esempio banale: quando sui media degli anni '80 scoppiò la paura dell'Aids, nei bar le zuccheriere aperte vennero sostituite con quelle "a dosatore". Anche in quei piccoli gesti si insinuava il panico da contagio, un sentimento che ha contribuito a creare sospetto e paura dell'altro.

Venivamo dagli anni '70, in cui c'era voglia di condividere, di stare insieme e anche di trasgredire, e ci troviamo oggi in una società governata dalla paura del "diverso" (basta pensare agli stranieri) e alla difesa del proprio territorio. Il documentario è nato dal desiderio di indagare come questa epidemia abbia influito su questi cambiamenti della società.


Raccontare i cambiamenti sociali non è certo impresa facile... Voi come avete scelto di procedere?

Abbiamo scelto di farlo attraverso le voci di coloro che hanno vissuto tutta la storia dell'epidemia; farlo attraverso documenti d'epoca, infatti, sarebbe stato impossibile visto che in Italia, al contrario degli Usa, se si esclude qualche intervista televisiva particolarmente toccante non esistono immagini relative agli avvenimenti di quegli anni.

Così ci siamo messi sulle tracce di coloro che potevano raccontare in prima persona cosa è successo nelle varie fasi dell'"era Aids": i medici che hanno affrontato i primi anni in cui non si sapeva nulla del virus e di come fermarlo, i ragazzi e le ragazze che allora, inconsapevoli del rischio, sono stati colpiti dall'infezione e l'hanno combattuta, quelli che si sono infettati più di recente e anche chi è nato con il virus nel sangue. Ma abbiamo sentito anche giornalisti, attivisti, infermieri, politici, attori, un po' tutti coloro la cui esistenza è stata in qualche modo condizionata dalla lotta all'Aids.

Abbiamo incontrato oltre 35 persone, e sempre, una volta accesa la telecamera, abbiamo registrato un gran bisogno di raccontare queste esperienze, di poter finalmente dare voce a sentimenti che non hanno mai avuto, almeno nel nostro paese, lo spazio per essere espressi e - soprattutto - condivisi. C'è stata da parte di tutti una gran voglia di far sì che tutto ciò che l'Hiv è stato nelle nostre vite potesse essere condiviso, rintracciato, elaborato. E noi sinceramente speriamo che questa elaborazione contribuisca a portare verso una nuova fase nella lotta all'infezione.

Dal punto di vista tecnico, il film ha richiesto quasi due anni di lavoro: il montaggio è stato un momento molto delicato, dovendo elaborare oltre 35 interviste di più di un'ora ciascuna per arrivare alla durata finale di novanta minuti. Le parole degli intervistati sono intrecciate con i due punti di osservazione del fenomeno, quello di una persona sieropositiva e quello di una sieronegativa.

Completano il percorso quattro figure che fanno da "guida" nei quattro decenni in cui è diviso il documentario: l'esperto di queer studies Marco Pustianaz per gli anni '70, lo scrittore e chimico Piersandro Pallavicini per gli anni '80, lo scrittore Stefano Benni [nella foto] per gli anni '90 e gli studenti di un liceo classico per gli anni 2000.


Ci potete fare qualche rapido esempio di riflessioni particolarmente interessanti e originali che avete raccolto nel corso del vostro lavoro?

Siamo rimasti molto sconcertati dalle parole usate per parlare di Aids e di persone sieropositive dai giovani studenti del liceo classico che abbiamo incontrato. Sono una agghiacciante testimonianza della vaghezza con cui i più giovani si accostano a un argomento come questo. Ma nel corso delle interviste abbiamo avuto anche tanti momenti di fortissimo impatto emotivo. Abbiamo cercato di raccontarli nel film, svelarveli ora ci sembrerebbe un controsenso...


Sull'Aids si è pensato, detto e scritto molto in passato. E allora è davvero necessario tornare a rifletterci ancora oggi?

Forse di Aids si è parlato molto in passato, ma sono ormai parecchi anni che se ne parla poco e nel frattempo le cose sono cambiate sensibilmente. La necessità di tornare a rifletterci è quindi fortissima perché occorre oggi rielaborare totalmente il linguaggio dell'Aids. La sensazione è che nei discorsi sull'Aids siamo impantanati in un linguaggio poco produttivo.


Non possiamo che concordare, come dimostra questa nostra inchiesta. Sarebbe molto importante avere campagne di prevenzione, ma comunque non sarebbe sufficiente...

Le campagne di prevenzione, quando vengono fatte, sono sempre benvenute e credo che siamo tutti d'accordo che ci vorrebbe più impegno per realizzarne di più e di migliori. Ma si tratta anche di cercare di cambiare registro, sganciare l'Aids dall'ambito di ciò che si crede di sapere ed entrare nel vivo della questione affrontandone con consapevolezza tutti gli aspetti.

Cerchiamo di spiegare meglio: quando si parla di Aids, inevitabilmente si toccano anche argomenti molto sensibili come la sessualità, il modo di rapportarsi agli altri, la cura di se stessi... Se si interviene in questi ambiti con formule prefissate anche giustissime come "usate sempre il preservativo", "non discriminate le persone sieropositive", "proteggetevi", se si usano queste formule sacrosante senza cercare di indagare da cosa nascono, quali vissuti ci sono dietro, se cioè non si condividono le esperienze di vita che hanno reso necessarie le formule del safer sex, allora si rischia di parlare a una platea vuota.


Nel documentario trattate anche il tema del bareback, partendo anche dall'inchiesta pubblicata su questo blog. La nostra inchiesta ha diviso i lettori, tra chi ha apprezzato la volontà di capire cosa spinga le persone a scegliere di avere rapporti consapevolmente e volontariamente a rischio e chi l'ha aspramente criticata perché di "certe cose" si dovrebbe solo scrivere una netta condanna, come se ogni approfondimento inducesse in tentazione... Voi come avete affrontato questo fenomeno?

Come abbiamo accennato prima, se vogliamo davvero affrontare in maniera coinvolgente l'esperienza dell'Aids non possiamo limitarci a formule precostituite per quanto giustissime. Dobbiamo dare voce alle contraddizioni e al modo particolare di elaborare le informazioni di ciascuno, senza giudizio ma con il desiderio di condividere.

In "+ o - il sesso confuso" ci sono testimonianze che possono far sobbalzare sulla sedia molti spettatori e tra queste sicuramente quella resa da te in riferimento all'inchiesta sul bareback da voi condotta. Eppure non c'è nessuna volontà di scandalizzare, solo di capire. Per questo non siamo affatto d'accordo con chi pensa che dare voce a tutti i modi di vivere la sessualità sia sbagliato. Noi personalmente difendiamo e appoggiamo la logica del safer sex ma l'obiettivo del nostro lavoro non è di portare avanti una campagna sulla prevenzione ma capire il fenomeno Aids e sesso in tutti i suoi aspetti.


Ne "Il vento, di sera" Andrea Adriatico ha affrontato il tema del terrorismo.... Credete che possa esistere un qualche collegamento tra Aids e terrorismo?

Aids e terrorismo sono due fenomeni che hanno genesi molto differenti e che pure hanno prodotto alcuni effetti simili. Mentre la strategia politica del terrore nasce con la volontà di creare paura, nel campo dell'Aids questo aspetto volontario manca; è vero che, esattamente come lo scopo dei terroristi era di creare divisione, alcuni movimenti di opinione hanno usato la paura generata dall'epidemia per recludere determinate categorie di persone nel campo dei "cattivi", come è il caso di chi ha pensato alle persone sieropositive come a degli "untori".

In questo quindi ci può essere una similitudine: la paura dell'Aids, come la strategia del terrore, ha contribuito a creare separazione dove prima c'era la voglia di condividere, a separare i supposti "buoni" dai supposti "cattivi", generando contrapposizioni che snaturano la dignità umana complessa e complessiva. Ma se nel terrorismo questo era voluto, nell'Aids tutto ciò è avvenuto in conseguenza di debolezze umane più che di una precisa strategia.

Le conseguenze sulle nostre vite del terrore generato dell'Hiv, inoltre, hanno pesato molto sulla visione collettiva della moralità: in conseguenza dell'Aids, il modo di fare sesso è diventato qualcosa che deve passare un vaglio morale, che può essere accettato o condannato a seconda che rispetti o no un codice etico. Un codice etico che non tiene conto delle caratteristiche peculiari delle persone. E in questo crediamo che la nostra società stia pagando un prezzo molto alto in termini di libertà personali.


Little Prince(ss)

Le altre interviste:
* Roberto Recchioni e il totalitarismo di Mater Morbi
* Andrea Savarino e la ricerca per eradicare l'Hiv
* Niccky e l'Hiv come stimolo a vivere col sorriso

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* L'amore ai tempi del bareback - Inchiesta in 4 parti

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