L'orso non ha Perdido né il pelo né il vizio: riflessioni di un disegnatore bear (2° parte)

Dove eravamo rimasti...
La 1° parte dell'intervista!

Oggi torniamo a commentare con Perdido, l'autore del blog WOOF! e di tavole di fumetti molto note nella comunità bear, le prese di posizione, per nulla tenere, di Les K. Wright, il più importante studioso del movimento ursino americano. Nella prima parte dell'intervista abbiamo ricordato l'esperienza della fanzine WOOF!, abbiamo parlato di arte bear e di alcuni atteggiamenti anti-ursini che stanno emergendo. Adesso cerchiamo di ricostruire come è nato, si è sviluppato e che fine sta facendo il movimento degli orsi, soprattutto in Italia.

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"Qualcuno si accorse che il desiderio, la tenerezza e tutte quelle pulsioni che (per quanto negate) sono motore dell’esistenza umana, sfuggivano in realtà alle tipizzazioni ufficiali, mentre esisteva una vastissima regione emozionale ancora priva di voce": racconti così la molla che fece scattare la nascita del movimento ursino. Per Giambattista fu la "mera esigenza di condividere un ideale estetico ignorato o ridicolizzato dai mass-media".

Il movimento bear, almeno alle origini, è stato un modo per rompere uno schema erotico e estetico o solo un modo per aggiungere una nuova casellina allo schema precostituito? Sei troppo idealista tu o è troppo prosaico Giambattista?

Più che altro direi che scegliamo parole diverse per esprimere i medesimi concetti. Non è tanto questione di idealismo o pragmaticità, quanto di cronologia di cause ed effetti. Per iniziare a condividere con qualcuno un canone estetico fuori dagli schemi, bisogna prima averlo interiorizzato.

Giambattista dice il vero quando parla di un gran numero di persone vicine alla quarantina che tardavano a riconoscere la propria omosessualità in quanto non ascrivibile a uno dei modelli egemonici della cultura gay. Perché questo avvenisse e molta gente potesse rompere le catene di certi condizionamenti culturali, è stato necessario elaborare un codice fatto di simboli, significanti e significati.

Qualcosa che per certi versi potremmo paragonare all’elaborazione del concetto di “Négritude”, creato dal poeta surrealista, e in seguito presidente del Senegal, Léopold Sédar Senghor. Un insieme di elementi volti a identificare una comunità e a renderla consapevole dei propri diritti affinché divenga forte, capace di far sentire la propria voce e conquistare una prospettiva di vita migliore.

Prima di aggiungere la “casellina allo schema precostituito”, quindi, si sono dovute aprire delle gabbie. Svegliare delle persone. Far capire loro che anche la coppia etero formata da un’obesa e un nanerottolo che vediamo camminare mano nella mano, tanto distante dalle famigliole in tiro proposte dalla pubblicità, non è formata da persone sconfitte o che si accontentano di avanzi perché non possono aspirare ad altro. Ma è probabile che si amino e si desiderino furiosamente pur non assomigliando a divi del cinema.

Può sembrare scontato, eppure per molti non lo è. Tutto il cosmo emozionale che riguarda sentimenti e desideri è ben più complesso di quello proposto ogni giorno da media e stereotipi. E questo a prescindere dalla questione gay.


Les K. Wright guarda con vera e propria angoscia alla possibilità che il movimento bear europeo abbia seguito le orme di quello americano, con la trasformazione dell'identità ursina in fenomeno consumistico. Giambattista rimpiange il fatto che in Italia si sia ben lontani dall'avere una comunità coesa come quella americana. Secondo te è il modello americano è davvero così brutto come lo dipinge Wright?

Devo ammettere che mi sfuggono le ragioni della presunta coesione della comunità bear americana. Diciamo, piuttosto, che ha un modo diverso di vendere la propria immagine oltre oceano, facendo giungere il messaggio – abbastanza superficiale – di una categoria compatta come un’azienda. Il concetto stesso di bear, in America, è vissuto in modo molto più specifico e per certi versi restrittivo rispetto all’Europa.

Prendiamo, per esempio, la rivista storica Bear Magazine. Prima fanzine, poi rivista professionale, ma sempre caratterizzata da un format editoriale ed estetico rigidissimo. La presenza di modelli ursini scelti secondo una selezione che non lasciava alcuna libertà di manovra. Cioè uomini villosi ma dal fisico scultoreo come il divo porno Jack Radcliffe, divenuto a suo tempo un vero e proprio cliché di riferimento.

Per la cultura americana, le etichette gay bear sono separate da compartimenti quasi stagni, e questo le rende un terreno fertilissimo per ogni tipo di operazione commerciale. Per un americano, l’orso è un uomo virile, muscoloso e non grasso, barbuto e peloso. I chubs, vale a dire i ciccioni, sono una tipologia a sé. Limitrofa ai bears in quanto a sua volta fuori da certi confini dell’estetica dominante, ma comunque altra cosa rispetto agli orsi doc. Potremmo continuare elencando una quantità di sottoetichette, quali daddies, wolves, silver fox... per le quali vale il discorso appena fatto.


E il movimento bear nel Vecchio Continente e in Italia ha importato questo modello dall'America?

Ci sono ombre e luci. Se da un lato, il movimento ursino europeo ha seguito il modello statunitense più facile, cioè quello commerciale basato in prevalenza sugli eventi festivi, è pure vero che conserva qualche differenza non da poco. La cosa interessante è che in Italia le distinzioni di cui parlavo prima non sono così nette.

Al di là della fortuna di certi stereotipi, ciccioni, orsi e daddies sono generalmente accolti sotto la grande dicitura "bears". Per noi italiani, per i meno pedanti e esterofili, il termine gergale "orso" si riferisce a una tipologia maschile grezza, nell’accezione più ampia e varia che questa generica definizione può avere. Potremmo azzardare che in Italia abbiamo assimilato il concetto di orso forse in un modo più liberale rispetto agli Stati Uniti.


Nel tuo interessantissimo post sembri contrapporre il movimento bear mainstream e la libertà individuale di "restare fedeli al sogno (e alla prospettiva della sua migliore realizzazione) piuttosto che alla forma canonizzata di questo". Ma possiamo davvero accontentarci del fatto che un progetto culturale, pur forse fallito nella sua dimensione collettiva di trasformazione sociale, può sopravvivere in una minoranza di "resistenti"?

Non si tratta di accontentarsi, ma di non rinunciare alle proprie idee solo perché i primi risultati si sono rivelati deludenti. Diversamente si rischierebbe di ridurre la stessa parola “rivoluzione” a un’etichetta per radical chic. E poi, non dovremmo perdere di vista il fatto che orsi e orsofili sono pur sempre una sottocategoria del più frastagliato mondo omosessuale, con la sua storia, le sue vittorie e le sue sconfitte.

Pensiamo al Fuori!, prima realtà associativa omosessuale, il cui acronimo non a caso significava: Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano. Quella parola (“rivoluzionario”) diceva tutto, ed era pregna di tante promesse. Oggi gay e lesbiche italiane annaspano in un caos politico dove quasi nessuna tra le forze di sinistra considera prioritarie la questione LGBT e il tema dei diritti civili. Anzi, vengono spesso ignorate perché ritenute non redditizie sul fronte elettorale, e ad esse si preferisce il dialogo con il mondo cattolico.

Prima che sugli orsi, forse dovremmo interrogarci su cosa resta oggi di quella rivoluzione omosessuale. Chiederci se la cultura bear non stia subendo, di riflesso, le medesime trasformazioni storiche e sociali. E se ancora oggi è il caso di resistere, sia pure pochi, sia pure in minoranza. Ma potremmo dire la stessa cosa del movimento femminista, oggi da molti definito fallimentare. Neanche a farlo apposta, in un momento storico in cui del femminismo ci sarebbe un gran bisogno.


Little Prince(ss)

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Il grande colibrì